Pensieri di mamma

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No.

Non è un’angelica bambina.

Ma un essere speciale che ha fatto un patto segreto con il genio del male.

Un essere pensante che sa sempre, esattamente, con lucida precisione, il punto di tensione massimo, dopo il quale il filo si spezzerà.

E lei si ferma, immobile, proprio quell’istante prima.

Dopo un divieto, quando capisce che non è aria da subito, il suo invulnerabile sesto senso la consiglia di non iniziare neppure la battaglia psicologica; e lei, placida e rosea come una saponetta palmolive, si arrende con leggerezza come se nulla fosse, magari canticchiando o passando ad altro argomento.

Quando al contrario intuisce che c’è margine di riuscita, attacca con uno psicologico, vocale e fisico martellamento pneumatico già volto al traguardo, certo di una vittoria.

Lei legge gli occhi.

Lei sa.

Lei capisce.

Molto prima di me.

Credo che sia grazie a delle speciali ghiandole, aliene e trasparenti, poste esattamente fra gli occhi e l’istinto di sopravvivenza.

Logica impeccabile

E’ che una in una domenica pomeriggio calda come solo le ottobrate romane sanno essere, se ne va con la famiglia ad un evento enogastronomico a un passo dal Tevere.

Se ne parla bene perché sono previste svariate iniziative per bambini: laboratori, face painting, animazione.

E poi, come se questo non bastasse, per l’occasione si è organizzata una vera reunion che quella tanto auspicata dei Guns ‘n Roses al confronto pare una caccola.

Finalmente dopo due mesi di attesa trepidante, svariati tentativi falliti e numerosi discorsi sospirati al vento, Bambola avrebbe rivisto il suo Fla-dio, ovvero il bimbo con il quale ha avuto il piacere di intrattenersi lungamente e “ludicamente” per tutta l’estate, chiamandolo dal cancello di casa nostra fino all’alto della collina di fronte dove lui abitava – un Romeo e Giulietta al contrario – tanto per capirci.

Parliamo dello stesso Fla-dio che faceva dell’inno alla “cacca puzzina” una hit da classifica mondiale, quello che per ogni cosa che abbiamo ricevuto in regalo da due mesi a questa parte il primo, immancabile commento di Bambola era “Ma questo Fla-dio non me lo fre-ga”.

Proprio lui, l’onnipresente Fla-dio, monopollizzatore dei nostri discorsi per settimane e mesi.

Insomma quello lì che avremmo voluto più volte svegliare nel cuore della notte per chiamarlo e raccontargli che Ruby (il nostro cane) aveva nel pomeriggio fatto la cacca (tanto per rimanere in tema).

E quindi finalmente arriviamo all’evento.

Ma lui ancora non c’è.

E sia ben chiaro in questa sede che è stata la PRIMA E ULTIMA VOLTA che mia figlia ha aspettato un uomo, che verrà da oggi sapientemente istruita alla logica del “farsi attendere”, “far soffrire” e pure “sedurre e abbandonare” tutti gli esseri maschili degni di questo nome (soprattutto quelli che le piaceranno e con una particolare attenzione per quelli biondi ciuffonati che sembrano essere parecchio pericolosi).

Facciamo un giro per gli stands.

Cuciamo un cuoricino con il feltro nel laboratorio per bimbi.

Papà se lo prende convinto che sia per lui (ho tuttavia il sospetto che fosse destinato inizialmente al tanto atteso Fla-dio che ancora era latitante).

Alla fine arriva col papà e i fartelli.

Io elettrizzata esulto, lo indico, dico “E’ arrivato!”.

Si vedono.

Si raggiungono.

Si scrutano per un secondo in silenzio.

Pausa.

Si girano e se ne vanno ognuno per la propria strada.

In compenso però alla bancarella del face painting hanno chiesto tutti di essere truccati come i Kiss.

Una logica impeccabile.

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A volte…purtroppo…

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Supermercato.
Sabato pomeriggio.
Bambola vede, prende e compra un pacco di merendine al cioccolato.

Le stringe forte per tutta la strada fino a casa.

Io le chiedo: “Bambola, ne dai una a papà domani a colazione?”

E lei senza indugio: “No.”

Io: “Perché no? Quando tu chiedi a papà i rigatoni o i biscotti, lui te li da sempre. Perché tu non puoi fare lo stesso?”

Pausa.

Risponde: “Purtroppo, questi sono miei.”

Piccoli passi di felicità

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Quando ti siedi al bar dove sei andata per anni con gli amici, dopo la scuola, e poi durante l’università, e ancora al rientro dai viaggi lontani,

a colazione la mattina nei fine settimana, per gli aperitivi di molte calde primavere dai cieli rosati, quel bar con i cornetti buoni veri, dove la panna la fanno tutte le mattine alle 5,
quel bar che è un po’ casa e un po’ il diario della tua giovinezza,

quando allo stesso tavolino di sempre per la prima volta ti ci siedi con tua figlia di due anni, e ordini un gelato (il tuo preferito fra tutti) per lei e uno per te,
e il cameriere ti saluta con lo sguardo familiare di sempre ma anche un po’ sorpreso dalla novità di 95 cm che ti porti dietro,

mentre tu e lei, chiacchierando di adesivi e biscotti, lo consumate scambiando i cucchiaini e le cialde,

allora, con lo sguardo rivolto alla chiesetta barocca che sembra sorriderti benevola dall’altro lato della strada,

capisci che stai vivendo un piccolo, piccolissimo fugace attimo di felicità.

C’era una volta…

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C’è questa tipa che incontro spesso nei pressi di casa nostra, di solito sempre seduta a un bar con le amiche.

E’ una signora, credo sulla quaranta/cinquina, sempre perfettamente acconciata, truccata, vestita, ma non del tipo “quadruccio antico”; no.

Lei è piuttosto fashion, giovanile, capello cortissimo, taccazzo 12 incollato al tallone levigato, orecchini grandi e trucco appariscente ma glamour.

Molto magra, non bella, ma decisamente cool.

A volte ci salutiamo perché fondamentalmente ho il pregio di attirare saluti e sorrisi da ogni dove, conoscenti, amici, turisti ma anche gente mai vista prima, considerando che vado in giro con una scia composita di cani, passeggini e bambine.

Forse faccio ridere. O forse faccio pena. Non mi è chiaro ancora (anche se recentemente ho il terribile sospetto che sia la seconda).

Comunque l’altro giorno mi si presenta agli occhi la seguente scena: alla mia sinistra Lady Mistiria, piazzata a una sedia di un localino appena aperto molto eco, molto bio, molto vintage, molto nature friendly (del tipo che hanno aperto ieri ma lei – non si sa come ha fatto – è già un’habitué).

Solita storia: con le amiche, tardo pomeriggio, bicchiere di vino bianco in mano, anellazzi alle dita che li vedevo pure da 60 metri di distanza (carucci però, devo dire).

Alla mia destra una signora arrancante più o meno della stessa età, piegata a 90 gradi con un bambino di 10/11 anni (evidentemente appena ritirato dal scuola) caricato a cavalcioni sulle spalle, un borsone colmo appeso all’avambraccio sinistro e un monopattino appeso al destro, incedeva per strada rimbalzando di tanto in tanto per tirar su e riassestare il ragazzino che, evidentemente stanco (lui), non aveva voglia di camminare. Modello portantino indiano all’aeroporto di Nuova Dehli per capirci.
La guardo bene e poi scorgo sul viso una faccia rilassata e un sorrisetto. Magari stava chicchierando di qualcosa di divertente insieme quell’ammasso indefiinto di oggetti e esseri umani che si trascinava su.

Riguardo a sinistra vestro il locale ethic, bio, eco, vegan.

Poi riguardo a destra.

Poi mi guardo io: passeggino,  due cani, borse della spesa.

Mi fermo.

Penso un attimo.

Roba che fino a tipo 3 anni fa mi sarei riconosciuta in quello che stava alla mia sinistra.

Realtà parallele

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Matrimonio fuori Roma, a due ore da casa.
Andiamo via la mattina e torniamo la sera.

La situazione necessita di una accurata programmazione.

Zero “Sali in macchina e parti”.

Ma noi, si sa, abbiamo sempre un asso nella manica.

E la cosa è stata quindi diabolicamente pianificata.
Presente Furio in Bianco Rosso e Verdone?


Ecco, tipo.

Vado ad esplicare.

Un cane se lo carica Nonnasantasubito 1 che lo viene a prendere a casa;

l’altro cane l’abbiamo piazzato dall’amico vicino di casa, promosso a dog sitter per l’occasione.

Bambola portata, fra casa e casello autostradale, da Nonnasantasubito 2 per la giornata.

Per la serie “Noi furbi come faine” passeremo a riprenderla al ritorno.

Tutto sotto controllo.
Eche ce vo’?

E così , mentre alle 7:15 di mattina suona la sveglia e inizio a preparare la furibonda sequenza di eventi incipienti, fra una colazione, un tacco a spillo e un guinzaglio, penso che di lì a pochi minuti tutti noi ci separeremo, ognuno per proprio conto, ognuno immerso in una giornata parallela che io non potrò vedere se non nei racconti di altri.
E così immagino Bambola concentrata nei suoi giochi, e Ruby con il solito sguardo perso nel mondo, e Cicco sbracata sul tappeto fra una caccia al gatto e una al cuscino.
Immagino noi due, in auto e poi in una chiesa a 200 km da tutto ciò.

Per  una breve, lunga giornata le nostre vite saranno perfettamente parallele e separate.
Fa strano pensarci protagonisti di un film diviso in 4 episodi con un unico finale che ci ritroverà la sera tutti a casa.

E penso
che lasciare è sempre un po’ …
straziante, stravolgente, strano.

Autoflagellazione

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Amica: “Che hai fatto, l’hai iscritta la bambina all’asilo?”

Io: “Purtroppo non abbiamo fatto in tempo per il Progetto Ponte, aveva ancora il pannolino all’epoca, e chissà se l’avrebbero presa.”

Pausa imbarazzata.

Proseguo: “Però al municipio mi hanno suggerito un programma diverso, pare sia bellissimo. Si chiama…si chiama…”

Pausa imbarazzata del tipo che madre degenere non sai manco dove hai iscritto tua figlia e…effettivamente no. Non lo sapevo proprio bene.

Cercando di darmi un contegno: “Vabé, poco importa il nome. In ogni caso non ci hanno chiamate.”

Dopo alcuni giorni arriva la telefonata dal Municipio Roma I.

Bambola è stata ammessa al Programma….programma…vabé. A quello.

Tre giorni a settimana, accompagnata da uno dei genitori per tutte e tre le ore di ciascuna mattina.

Non snellirà  la routine quotidiana ma sarà cosa buona e giusta per abituare la pargola alla scuola vera.

Segreteria scolastica: “Venga alla scuola signora che le dobbiamo illustrare di cosa si tratta con precisione. Mi pare di capire che al municipio non le hanno detto nulla.”

Appuntamento per il venerdì seguente.

Per caso ne parlo al bar lo stesso giorno con una mamma conoscente che, casualmente ci va e ci porta entrambi i figli.

Lei è convinta. Entusiasta.

Conoscente: “E’ un programma splendido. Però guarda, è un lavoro enorme.”

Io: “Come enorme?”

Conoscente: “Si tratta di un lavoro sulla genitorialità, un progetto assistito. L’insegnante è una psicologa.

Ci sono regole ferree. Molto dure. I bambini non fanno ciò che vogliono e nemmeno tu.

Mio figlio ha pianto per sei mesi e io lo aspettavo nella stanza accanto. E’ stato terribile ma molto utile. 

Insomma ti devi mettere in discussione. Capire i tuoi errori come madre. Imparare a riconsocerli.”

Io bianca come come il latte della centrale: “Gulp.”

Conoscente: “Insomma, alla fine devi demolirti per poi ricostruirti.

Non solo il rapporto con tua figlia ma te stess…”

Avevo già svoltato l’angolo senza manco pagare il caffé.

Lo so.

Sono sicurissima che di errori ne faccio veramente molti.

E sono altrettanto certa che alcuni non so neanche riconoscerli.

Di certo dovrei autoflagellarmi per aver assunto approcci senz’altro sbagliati.

Forse è vero che dovrei demolirmi per poi ricostruirmi.

Ma sai che c’é?

Per quest’anno passo.

Del resto che pretendono da una che ha fatto sega alla seconda lezione pre-parto e non si è mai più presentata?